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Busto: LBR 125 Re Luigi XVI

Dimensioni: h. cm 74 peso (entro i 20 kg.)

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Luigi XVI. Prima detronizzato e poi decapitato durante la Rivoluzione francese. Nipote di Luigi XV, era figlio del delfino Luigi e di Maria Giuseppina di Sassonia; alla morte del padre (1765) divenne lui a 11 anni delfino e poi re di Francia col nome di Luigi XVI. Nel 1770, lui sedicenne sposò Maria Antonietta, quindicenne, figlia di Maria Teresa d’Austria. Alla sua ascesa al trono, la Francia era gravata da debiti e impoverita da una politica fiscale esosa: comunque animato da buone intenzioni appena ventenne Luigi XVI cercò di ridurre le tasse e di introdurre riforme economiche e giudiziarie. Ma era l’uomo meno adatto per affrontare la grave e complessa crisi da cui la monarchia fu attanagliata nei due  ultimi decenni dell’Ancient règime. La sua manifesta debolezza di carattere e l’incapacità di tener testa alla nobiltà, contraria alle riforme, fecero cedere Luigi XVI alle pressioni dei ceti privilegiati: dapprima licenziò il controllore delle finanze Turgot, che cercava di attuare una politica innovatrice; in seguito esautorò dallo stesso incarico sia il banchiere ginevrino Necker che lo statista Calonne, che tentavano anche loro di introdurre una riforma fiscale. La paura del calo della rendita fondiaria provocò il malcontento dei nobili; la paura di dover pagare  anche loro le tasse provocò invece le ostilità del clero (fino allora esente). Ma anche dall’altra parte la paura non era inferiore. Molte difficoltà commerciali e manifatturiere causarono crisi urbane che presero poi una drammatica direzione negli anni Ottanta alimentando acute tensioni  e una crescente ostilità nei confronti del governo monarchico. A rendere il quadro disastroso si aggiunsero i cattivi raccolti nelle campagne di alcuni territori, mentre in altri non toccati dalla carestia, l’ imboscamento e la diminuzione nel commercio delle stesse derrate, che causarono ulteriore fame e disoccupazione. La successione di riforme abortite, i vari espedienti finanziari per nulla originali, iniziarono ad essere false risoluzioni, odiose all’opinione pubblica ed anche a quella intellettuale che si era formata sulle rive della Senna, mentre la corte di Versailles così “lontana”, languiva; continuava indifferente dentro il chiuso circolo magico, cinico e gaudente, con folli spese di corte, irresponsabile, sempre più estraniata dai problemi del tempo. Da anni aveva perso contatto con la città fin da quando Luigi XIV aveva trasferito a Versailles la corte, la grande nobiltà, i suoi ministri, con lui ad esercitarvi il suo assolutismo con la famosa frase “lo Stato sono io”. (ma fu fortunato ad avere accanto a sè un Colbert  ministro delle finanze e un Le Tellier della guerra. Morti questi due, il “re sole”, lo si vide subito, si avviò al “tramonto”, l’”illuminato” lasciò la Francia “al buio”. Quando morì nel 1715 il debito pubblico era pari alle entrate dei successivi anni 1716, 1717 e 1718. Poi quando salì sul trono il suo pronipote Luigi XV, fu anche lui fortunato, riuscì a trascorrere tutta la sua esistenza nel cerchio magico, favorito non da una oculata amministrazione, ma da una prosperità senza precedenti;  che però nessun francese attribuì i meriti al re. Ma ormai i problemi non erano più quelli economici ma di altro genere: della natura, della felicità, della liberta, della giustizia, e le ostilità non smisero mai di crescere; al contrario per effetto di una propaganda ideologica che si svolgeva attraverso i giornali e i libri, nei salotti, nelle logge e nelle accademie,  le animosità non conobbero alcun freno nonostante le censure e la repressione. Il primo magma sociale ribollente di idee e di aspirazioni fu la Borghesia poi venne quello del  Popolo. (Borgh...esi erano i nuovi ricchi dei... borghi, il popolo la plebe, i contadini) Tutti mossi da motivazioni diverse ma destinate a convergere nel momento cruciale. L’aggancio fra borghesia e popolo viene reso quasi automatico dalla forte spinta esercitata dall’ansia di una grande riforma che travaglia i due ceti vessati da un’autocrazia capace soltanto di conservare e coltivare i propri privilegi feudali, ma del tutto inetta al governo del Paese, all’elaborazione di una politica economica in linea con i tempi della rivoluzione industriale che altrove, come in Inghilterra, sta già facendo i primi passi. La borghesia punta alla gestione del potere per rendere la macchina della Stato più funzionale alla propria attività che ha già imboccato la strada dell’imprenditoria premoderna; mentre il popolo chiede soltanto di essere sottratto alla fame, al flagello di tasse e decime che deve pagare al re, al nobile che vanta ancora diritti medievali, al clero. Alla vigilia della rivoluzione la reputazione di Luigi XVI, per tutte queste ragioni era ormai compromessa; gazzete, libelli, disegni, canzoni, lo schernivano, raffigurandolo inetto, panciuto, una pupazzo cornuto a fianco di una moglie festaiola senza giudizio circondata da una massa di parassiti e furfanti. In realtà Luigi XVI era animato da buone intenzioni. Ma debole di carattere, era l’uomo meno adatto per affrontare la grave e complessa crisi da cui la monarchia fu attanagliata nei due ultimi decenni. Proprio quando Luigi XVI salì sul trono, negli anni Settanta, l’economia francese entrò in una fase di recessione che durò quanto il suo regno. Tutti gli errori fatti da quei “riformatori” che gli furono raccomandati dai suoi consiglieri intriganti furono imputati a lui. Poi di errori iniziò davvero a farli quando non seppe distinguere i veri “capaci”, come Turgot, Necker, Calonne, dagli “incapaci”. Tutti questi elementi negativi creano un’atmosfera di crisi in crescendo. Nel 1788 Luigi fu costretto a convocare gli Stati generali. Riuniti dopo molte discussioni e muniti di rimostranze (cahiers de doleances) compilati in tutto il regno, non fornirono al re solo dei rimedi alle finanze, ma si trasformarono gli Stati in assemblea nazionale costituente, progettando e sollecitando una globale riorganizzazione dei poteri politici della monarchia. Luigi XVI alcune volte si sforzò di barcamenarsi, altre volte tentò di opporsi con la forza, ma dopo il 14 luglio del 1789 (presa della Bastiglia) dovette cedere sotto la pressione popolare e lasciare Versailles per le Tuileries. E’ il momento in cui l’Ancient regime sprofonda nella “grande paura” sotto i colpi delle deliberazioni dell’assemblea costituente. Luigi e i suoi cattivi consiglieri, tentano allora di corrompere i deputati e dividere gli uomini del terzo stato, del basso clero e popolo, ormai diventati padroni della situazione. Pur favorevole a una monarchia costituzionale basata sulla separazione dei poteri e il riconoscimento dei diritti dei cittadini, nello stesso tempo Luigi accentua il suo dissenso. Nella notte del 20 e 21 giugno del 1791 quando il lavoro dell’assemblea costituente era ormai compiuto Luigi XVI  fugge con tutta la famiglia. Riconosciuto e arrestato a Varennes, fu ricondotto dentro una Parigi indignata e in fermento, comunque alla fine fu salvato dall’assemblea. A settembre elaborata la Costituzione dall’assemblea Luigi XVI firmandola assunse le funzioni di re costituzionale i cui poteri però erano strettamente limitati dall’assemblea legislativa insediata il 1° ottobre 1791. Ma durò poco, meno di un anno. Il Re aveva giurato fedeltà alla nuova Costituzione, ma segretamente continuò a manovrare contro la rivoluzione, sostenendo la corrente dei girondini favorevole alla guerra contro l’Austria; nei suoi progetti, infatti, una sconfitta militare avrebbe favorito la sua restaurazione sul trono con tutti i suoi poteri. Un passo fatale. Alcuni insuccessi militari, aggiunti a una crisi economica nella primavera estate del 1792, tutta la Francia sentì il pericolo nazionale quando il duca di Brunswick minacciò la distruzione di Parigi in caso di offese alla persona del re. La capitale -con i capi cordiglieri - insorse nella famosa giornata del 10 agosto. Giorno che segna la fine del regno di Luigi XVI, anche se la repubblica venne proclamata un mese dopo, dalla convenzione, il 21 settembre 1792. Imprigionato al Tempio, il re è accusato di tradimento (basato sulla compromettente corrispondenza con le corti straniere); compare davanti alla Convenzione nel successivo dicembre per essere processato. Il processo fu l’occasione per uno scontro tra girondini che volevano appellarsi al popolo per salvargli la vita e i montagnardi che lo volevano sul patibolo perché colpevole. Il Re  ha chiesto all’inizio del processo un difensore, gli assegnano uno dei più celebri avvocati, Target, che però rifiuta. Si ricorre a un altro, a Tronchet, che protesta. Si offre volontariamente il settantaduenne Malesherbes, un vigoroso avversario dei cortigiani.  La sua difesa è molto debole, e il re di suo aggiunge poche parole, molto lapidarie “La mia coscienza non mi rimprovera nulla”. “Non ho tentato di corrompere alcuno”.  Trentuno ore durano le votazioni poi a notte fonda il verdetto: la condanna a morte sulla ghigliottina ottiene 387 voti ( di cui 361 morte immediata, 26 differita) contro 334. Per l’occasione la ghigliottina viene spostata dalla Piazza del CARROUSEL alla Piazza della Rivoluzione (oggi CONCORDE), sul lato nord-ovest, per favorire l’accesso del pubblico che vuole assistere, più numeroso del solito, al “grande spettacolo” dell’esecuzione. Prima dello spuntar dell’alba del giorno 21, la guarnigione di Parigi si è già schierata nella piazza che porta in nome del condannato. Tutta Parigi sa dello “spettacolo” che sarà offerto alle ore 10, e gira già la voce che i sostenitori di Luigi stanno progettando di rapirlo mentre andrà al patibolo. Le misure di sicurezza diventano imponenti. Alle ore 10 in punto Luigi XVI giunge ai piedi del patibolo; disposte in quadrato ci sono le truppe al comando di SANTERRE su un cavallo con la spada  sguainata pronto a dare il comando per annientare il primo accenno di sommossa. Ma non occorre; non accade nulla e durante il percorso Luigi ha mostrato una eccezionale calma e dignità. Solo quando sale sul palco, dove la ghigliottina lo sta attendendo, ha  uno scatto di fastidio quando gli aiutanti del boia gli si sono avvicinati per svestirlo. Si toglie da sè la giubba, poi davanti all’immensa folla che lo circonda ammutolita, lui la guarda  e come se desse un comando, con la voce ferma inizia a pronunciare una frase: “Popolo, muoio innocente...” ma  un ordine di Santerre ai tamburi copre la sua voce. Sanson il boia con il suo aiutante  gli legano le mani, lo immobilizzano sulla tavola orizzontale ribaltabile,  gli fissano il collo nell’incavo, passano gli ultimi lunghissimi istanti prima che si oda il colpo secco della lama che dovrebbe decapitare e far rotolare la testa del Re di Francia nella cesta. Chi si aspettava di vedere questo re, Luigi Capeto, re di Francia Luigi XVI,  che tanti infamavano come un uomo codardo, mediocre, inetto; chi si aspettava di vederlo vile, fifone, piagnucolante, rimase deluso. L’uomo con una regale fierezza e con inaspettata freddezza si attenne a tutto il lugubre cerimoniale che precedeva l’esecuzione. (e allo stesso modo si comportò mesi dopo la moglie). Ma accade l’imprevisto: forse preso dall’emozione di uccidere un unto di Dio, Sanson aveva forse  posizionato male il condannato. La lama cadde, ma non recise completamente il collo del re, che morì con la testa ancora mezzo attaccata. Sanson ne uscì sconvolto. Qualcuno gridò “Viva la Repubblica”, mentre altri si precipitarono a bagnare il fazzoletto nel sangue come “souvenir” . La “festa” sembrava finita; pochi immaginavano che era appena cominciata.